Nel 1989, pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino e di molti
regimi comunisti, il mondo assisteva incredulo al maggio cinese.
Un
maggio di rosse bandiere sventolate nelle piazze, un maggio di passione
politica, un maggio in cui un popolo ha come non mai gridato ai potenti
ed al mondo la sua voglia di democrazia. Ma la libertà che in molti
avevano assaporato a maggio non era altro che il preludio alla
repressione di giugno.
In una notte i manifestanti morirono a migliaia e con loro morì il sogno
cinese. La repressione era rimasta l’unica arma del governo per
mantenere l’ordine pubblico e per mantenere in vita un regime che
rischiava il collasso. Ma perché questo movimento faceva così paura al
regime? Quali erano le sue rivendicazioni, quali le richieste?
Tutto
era iniziato il 15 Aprile con la morte di Hu Yaobang, il segretario del
Partito Comunista Cinese, che dopo aver appoggiato le rivolte
studentesche del 1987 si trovò in minoranza nel partito e fu costretto a
dare le dimissioni.
La tensione di quei giorni e di quelli
avvenire, che portò al tragico epilogo di oltre un mese più tardi, era
una tensione irradiata sulla Cina dall’alto, dalle lotte intestine al
Partito Comunista Cinese per la Successione a Deng Xiaoping. Esistevano
infatti due schieramenti contrapposti, due correnti interne al partito
che si apprestavano a fronteggiarsi per raggiungere il potere assoluto.
Da
una parte c’erano i sostenitori di Hu Yaobang e della sua linea
politica, la linea liberal/riformista; egli passerà alla storia come il
segretario del nuovo corso del Partito Comunista in Cina, grazie alla
svolta del 1984 quando decise di abbandonare il modello di comunismo
sovietico per avviare il paese verso un nuovo modello di “comunismo
liberale” che potesse garantire la modernizzazione del paese. A
rappresentare questa corrente era l’attuale segretario del partito, Zhao
Ziyang.
Dall’altra parte era schierata la vecchia guardia
conservatrice, l’ala più ortodossa del partito, appoggiata dall’ala
intransigente dei militari e guidata dal primo ministro cinese Li Peng.
Alla
notizia della morte di Hu Yaobang, il popolo si era riunito
spontaneamente in piazza per esprimere il suo affetto all’amatissimo
leader, e la manifestazione di solidarietà si prolungò per i giorni
successivi, ma già da subito ai vertici del partito la paura che la
manifestazione si potesse tramutare in protesta manovrata fece sì che la
TV di stato censurasse quanto stava accadendo in piazza.
La folla
era composta per lo più di studenti. Per averli appoggiati due anni
prima, Hu Yaobang era stato costretto alle dimissioni, e questo lo rese
il loro idolo; egli aveva inoltre preso più volte le difese della classe
intellettuale. Questa era messa ai margini della società dal regime
comunista che sfruttava letteralmente gli intellettuali quando ne aveva
bisogno e poi si prendeva ben poco a cuore le loro richieste; le menti
colte potevano divenire scomode, difatti erano tenute sotto stretta
sorveglianza dai falchi di regime.
In questo momento politicamente
cruciale, la piazza chiedeva al governo le riforme di cui il paese non
poteva più fare a meno. Le richieste erano semplici: più democrazia,
meno corruzione. Queste erano le richieste principali, a cui si
affiancavano richieste di lotta alla disoccupazione ed all’inflazione.
Ad
una settimana dalla sua morte, il 22 aprile si tennero i funerali di Hu
Yaobang, e la cerimonia vide una straordinaria partecipazione popolare.
Dopo la cerimonia era stato imposto lo sgombero della piazza ma alcune
migliaia di studenti decisero di non andarsene, e la polizia non se la
sentì di sgomberare la piazza con la forza. Quei ragazzi avevano
ufficialmente iniziato l’occupazione di Piazza Tien An Men, che si
sarebbe prolungata ben oltre ogni aspettativa.
I giorni a seguire
videro un susseguirsi di manifestazioni e cortei, con gli studenti che
inneggiavano sia al partito comunista che alla democrazia, e si
scagliavano contro corruzione e clientelismo. L’opinione pubblica era da
troppo tempo disgustata dai privilegi di cui godeva la nomenklatura, e
dal trattamento speciale riservato a parenti ed amici dei potenti del
partito. La protesta da studentesca diventava via via una protesta
popolare di massa.
Il 4 maggio tutta la Cina si ferma per una
giornata di festa nazionale. Si celebra il settantesimo anniversario
della nascita del movimento studentesco di sinistra nazionalista. La
retorica di regime ha sempre esaltato questa ricorrenza e tessuto le
lodi dello “spirito del 4 maggio”. Ma ora che lo spirito è più che mai
vivo e forte, il regime cerca di soffocarlo. Le richieste di diritti
civili e di libertà sono scomode, soprattutto quando le televisioni di
tutto il mondo ti puntano addosso le telecamere. Nell’aria si fiutavano
disordini imminenti, ma alla fine la giornata si risolse senza scontri.
Dopo
la prova del 4 maggio ce ne sarebbe stata per il regime una molto più
delicata: la visita in Cina di Gorbaciov, prevista per metà maggio. In
quel contesto eventuali disordini sarebbero stati intollerabili. Qui i
due schieramenti iniziarono il loro braccio di ferro. La corrente
liberale era pronta al dialogo con il movimento studentesco, e Zhao
dichiarò alla stampa: “gli studenti sono patrioti, vogliono solo
denunciare i nostri errori”. La corrente conservatrice prendeva invece
in considerazione l’uso di metodi drastici per ripristinare la legalità.
Gli
studenti vorrebbero porre il problema delle riforme durante la visita
di Gorbaciov, sfruttando la conseguente risonanza internazionale.
Tuttavia, il disturbare un incontro diplomatico di questa portata,
obbligherebbe il movimento a difendersi dall’accusa di aver danneggiato
l’immagine della Cina a livello internazionale. Un bel dilemma per
questi studenti, in cui convivono ideali socialisti, liberali e
patriottici.
Il 13 maggio segna un ulteriore inasprimento della
protesta, con alcuni studenti che iniziavano lo sciopero della fame per
ottenere un incontro con il segretario generale del partito. Lo sciopero
della fame, a cui aderirono centinaia di ragazzi nei giorni a seguire,
commosse tutto il popolo cinese ed il mondo intero. Non bisogna infatti
dimenticare che i Cinesi pativano la fame fino a pochi anni prima, ed in
parte la pativano ancora.
Il 15 maggio si sarebbe dovuta tenere in
Piazza Tien An Men la cerimonia di benvenuto a Gorbaciov, primo leader
Sovietico in visita ufficiale in Cina degli ultimi 30 anni, ma la piazza
non venne sgomberata e la cerimonia fu spostata all’aeroporto militare.
Anche in questa occasione i toni della protesta restarono civili e
pacifici.
Intanto gli studenti in sciopero della fame erano arrivati
ad essere circa 3000, e le ambulanze iniziavano il loro tour
ininterrotto per portare all’ospedale i più gravi.
Il 18 maggio Zhao
fece visita agli studenti in ospedale ed il giorno dopo andò
accompagnato dal primo ministro Li Peng a visitare gli autobus occupati
dagli scioperanti al centro della piazza, promettendo che una volta
interrotto lo sciopero vi sarebbe stato un negoziato. Questo è stato per
Zhao il tentativo estremo di dialogo con gli studenti, con quel
movimento che avrebbe dovuto aiutare la causa della sua corrente e che
invece riuscirà solo ad affossarla. Quella è per Zhao l’ultima
apparizione pubblica. Pochi minuti dopo il segretario del Partito
Comunista Cinese viene arrestato e messo agli arresti domiciliari.
L’accusatore è il primo ministro Li Peng, con cui aveva trascorso buona
parte della giornata. Le accuse sono molteplici, dai legami con il
movimento ribelle al favoreggiamento della corruzione quand’era primo
ministro, fino alla diffusione di segreti di partito e di stato nel suo
colloquio con Gorbaciov. Con Zhao vengono messi sotto accusa i suoi
fedelissimi, che formano la cosiddetta “banda dei sette”.
La sera
stessa una delegazione di studenti venne ammessa ad un colloquio con il
primo ministro Li Peng ed altri quadri del partito. Non si raggiunse
alcun tipo di compromesso, i leaders del movimento studentesco se ne
andarono a mani vuote ed il governo non accettò alcun tipo di richiesta.
Senza Zhao gli studenti sono molto più soli, e la resa dei conti si
avvicina. Si cominciano a temere le liste nere tra i leaders della
manifestazione.
La più grande preoccupazione del partito era ora
l’ingigantirsi del movimento attraverso la fusione del movimento
studentesco con la protesta degli operai. Le paure erano fondate. Nacque
in quei giorni un forte sodalizio di piazza tra studenti ed operai. Il
colpo di mano di Li Peng fece trovare agli studenti nuovi alleati. Anche
la stampa iniziò a fraternizzare con il movimento ed a chiedere più
libertà d’informazione. A questa battaglia si unirono tutti i
giornalisti stranieri che lavoravano come inviati in Cina. In questi
giorni di caos in tutto il mondo esponenti dei partiti comunisti e capi
di governo esprimono la loro sincera solidarietà agli studenti
Il 20
maggio, il giorno dopo l’arresto di Zhao veniva introdotta la legge
marziale, che non verrà in realtà applicata; intanto l’agenzia di
notizie ufficiale è apertamente dalla parte di Zhao e degli studenti.
Sempre più lavoratori si univano intanto agli studenti. Il 24 maggio si
univa alla protesta anche un sindacato autonomo, nato dalla scissione
dalla federazione nazionale ed il 26 maggio anche intellettuali artisti e
scrittori decidevano di formare un loro sindacato autonomo in appoggio
agli studenti.
L’ultimo gesto clamoroso della protesta fu la
costruzione, da parte degli studenti dell’accademia nazionale di belle
arti, di una provocatoria statua della libertà dell’altezza di nove
metri, e posta di fronte al ritratto di Mao. Nonostante gli studenti si
fossero affrettati a battezzarla non come la statua della libertà, bensì
come la “statua della dea democrazia”, il governo condannò il gesto
come un insulto alla dignità nazionale cinese.
La protesta sembra
però avviarsi al termine. Il trenta maggio gli studenti torneranno nelle
aule, così han deciso i loro leaders. Il governo ha promesso che nulla
verrà fatto loro. Per loro pagheranno i capi della corrente che li ha
appoggiati. Il pomeriggio del 30 maggio una tempesta di sabbia ed un
forte temporale si abbattono sugli ultimi studenti rimasti in piazza; la
solidarietà popolare non ha limiti. Arrivarono ancora una volta fiumi
di simpatizzanti a soccorrerli con vestiti asciutti e cibo.
Intanto l’esperienza del Sindacato Autonomo Unito si era rivelata un fallimento.
Con
gli operai il regime non era stato tollerante come con gli studenti, e
quasi tutti gli aderenti al sindacato erano stati arrestati.
Oltre
ai problemi di ordine interno, il governo iniziava a pensare a come
fronteggiare la crisi economica. Il mese di protesta aveva azzerato il
turismo, gli alberghi ed i ristoranti erano vuoti. Serviva un segnale
forte e di ordine per rassicurare il ricco turismo occidentale, e le
missioni diplomatiche in Europa e Stati Uniti si sarebbero svolte nei
giorni a seguire.
La Cina poteva dirsi ad un passo dalla guerra
civile. Solo un’azione militare poteva riportare l’ordine. Dopo un primo
tentativo di sgomberare la piazza senza fare vittime, conclusosi con
una vittoria della piazza fatta di militari spogliati e disarmati e
mezzi militari sequestrati arrivò l’attacco. Per tanti, nel primo
pacifico quanto fallimentare tentativo di sgomberare i manifestanti, i
falchi del partito avevano semplicemente cercato una giustificazione per
il massacro che stavano pianificando.
In Piazza Tien An Men, nella
terribile notte tra il 3 ed il 4 giugno, arrivarono i carri armati con a
fianco l’esercito con le mitragliatrici puntate sulla folla, ed a poco
servirono i lanci di sassi e di molotov. La statua della dea democrazia
venne abbattuta, attorno a lei mucchi di cadaveri. Un’immagine
emblematica.. Il regime poteva annunciare di aver stroncato la
“controrivoluzione”. Nei giorni iniziarono gli arresti e la sequenza di
condanne a morte. Saranno centinaia le esecuzioni di persone che avevano
preso parte alla manifestazione. Ancora oggi quasi 200 persone che
avevano preso parte alla protesta sono in carcere.
Cosa è rimasto
nemmeno vent’anni dopo, del loro sacrificio, oltre al dolore delle
famiglie e di chi credeva nella loro causa? Sono rimasti pochi ricordi
sbiaditi, qualche servizio al telegiornale, l’immagine di un ragazzo
immobile di fronte ad un carro armato. Troppo poco per quei ragazzi.
Volevano libertà e democrazia e sono stati disposti a morire pur di
ottenerla. Purtroppo le cose in Cina non sono cambiate. Il Partito
Comunista Cinese sentenzia ancora la pena di morte per centinaia di
dissidenti del regime (o presunti tali) e si serve anche dei campi di
lavoro, che non hanno nulla da invidiare ad i lager nazisti. All’interno
di questi campi di lavoro i prigionieri sono condannati ai lavori
forzati, e se non lavorano abbastanza bene può capitare che ne vengano
presi alcuni per un’azione dimostrativa: messi in riga e fucilati. Le
scene che abbiamo visto qualche tempo fa nei telegiornali erano
identiche a quelle viste in tanti speciali sulla Shoah, solo che
avvengono ogni giorno. Ma questo olocausto non dispone di cifre certe, e
sono certo che ciò che abbiamo visto non è che la cosiddetta punta
dell’iceberg di un mondo che c’è ma nessuno vuole vedere.
Gabriele Meneghetti